La vita transumante nei monti del Cicolano tra memoria e nuova coscienza dei luoghi
«Il paesaggio racconta le storie degli uomini. Anzitutto racconta gli événements, cioè i fatti minimi e memorabili di cui esso è stato il palcoscenico: storie quotidiane, avvenimenti scontati, dimenticabili, e gesta di grande rilievo e decisive nel segnare il corso della storia» (Turri 2000: 17-19). Tenuto conto di ciò, è sulla triangolazione tra storia, dinamiche identitarie locali e vissuti collettivi che si incardina questa indagine che intende contribuire ad una risignificazione di un territorio fragile, qual è da sempre il Cicolano. Nell’area sudorientale della provincia di Rieti c’è un territorio storicamente isolato anche dai contesti urbani geograficamente prossimi, che coincide con i settori montani dei comuni di Fiamignano e Petrella Salto. L’isolamento può sembrare strano se si considera che le città di Rieti e L’Aquila distano dal Cicolano soltanto poche decine di chilometri. Eppure l’isolamento è stato uno degli elementi caratterizzanti quel territorio. La morfologia impervia e la viabilità scarsa di fatto lo hanno reso a lungo una sorta di mondo a sé stante. Gli spostamenti erano strettamente limitati alle necessità gestionali delle greggi, dei campi e alla spasmodica ricerca di lavoro, rivolta altrove e quasi sempre stagionale. La transumanza rappresentava lo stile di vita dominante; erano i maschi che si allontanavano per stagioni intere, lasciando il peso della famiglia, della stalla e dell’orto sulle spalle delle donne e degli anziani. All’inizio dell’inverno, poi, in molti attraversavano il mare per raggiungere i caseifici sardi a lavorare come ‘casari’, per tornare a casa in primavera, quando le pecore isolane andavano “in asciutta” e i campi montani di proprietà, ormai usciti dall’inverno, richiedevano lavoro e presenza assidua (Adriani, Adriani 2008b).
Le transumanze più note erano (e ancora sono) quella orizzontale e quella verticale; entrambe avvenivano ritmicamente a fine estate e in tarda primavera. La prima vedeva muovere le greggi tra i pascoli della marina romana e quelli montani (Gabba 1985); la seconda, invece, spingeva i pastori stanziali a muoversi localmente con lo stesso ritmo tra il fondovalle e le pasture alte (Adriani, Morelli 2013). Proprio su quei monti, oltre ai pascoli, c’erano (e ci sono) le estese faggete che da sempre danno legna da ardere e i campi in cui si seminavano (e si seminano) l’antica ‘biancòla’, grano scarsamente produttivo ma molto resistente ad ogni avversità (Adriani 2014: 1-52) e la ‘lenticchia’ dell’altopiano di Rascino’ (Broccolini 2018), oggi assurta a presidio Slow Food. La necessità di dover restare in quota per lunghi periodi e le difficoltà degli spostamenti tra i monti e le valli, spinse chi se lo poteva permettere all’edificazione di rifugi in muratura, note come ‘casette’.
Nonostante ogni ‘casetta’ sia una proprietà privata, a livello locale nel loro insieme vengono sempre più diffusamente percepite come un patrimonio della comunità. Le loro origini sono incerte, le scarse conoscenze storiche le fanno risalire a un’epoca probabilmente successiva all’abbandono del Castello di Rascino, insediamento medievale distrutto nel 1408 dalle guerre e oggi completamente diruto. Ma la sua fine non significò un abbandono delle culture, bensì una loro trasformazione in stagionali (Leggio 1990).La loro ubicazione è legata ai seminativi e/o ai prati-pascolo di proprietà, a loro volta incastonati tra le vaste aree pascolive e boscate demaniali.
L’uso antico e recente. Alcune ‘casette’ sono state testimoni di eventi particolari; quelle di alcune famiglie benestanti locali hanno accolto i vescovi in visita pastorale (di Flavio 1989). Quelle di certi pastori, invece, sono state lo scenario di episodi briganteschi: «La notte fra il 25 e il 26 agosto [1865] quattro briganti uccisero ventisei pecore (cinque montoni, ventuno pecore) in uno stazzo situato in contrada Peschiole» (Sarego 1976: 123). Questi eventi, gli unici riportati nei documenti d’archivio, non possono però essere considerati caratterizzanti; le ‘casette’ sono stati muti testimoni del disagio e delle fatiche di generazioni di montanari che seguendo il ritmo delle stagioni vi hanno soggiornato senza lasciare traccia scritta del loro vissuto. Qualche frammento di quella vita dura e silenziosa è però rimasto nella memoria e nella poesia popolare. Nonostante la distanza dai centri abitati, la segregazione dal resto della comunità e la crudezza della vita che sui monti si conduceva per lunghi periodi, i pastori consideravano l’ambiente montano una sorta di Eden; il luogo dell’abbondanza e del riscatto dal vivere negli impervi e improduttivi pendii della Valle del Salto.
- Transumanza
- Foto